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Mag 2019

Una recente e interessante sentenza della Suprema Corte (Cassazione_12546_2019) ci offre l’occasione di tornare sul tema della responsabilità di chi gestisce un blog.

A causa della diffusione di Internet e, con esso, della possibilità per chiunque di esprimere in rete giudizi e opinioni su qualsiasi argomento, la casistica degli illeciti commessi dagli internauti è ormai sempre più ricca e variegata.

In particolare, sono molteplici le ipotesi di diffamazione di quelli che la Corte definisce degli “opinionisti social” semplicemente incauti o dei veri e propri “odiatori sul web”.

Come abbiamo già visto (cfr. IL FALSO MITO DELL’IRRESPONSABILITÀ PER QUANTO SI SCRIVE SUL WEB), prima di condividere sul web un giudizio o anche una semplice battuta, dobbiamo innanzitutto ricordare che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso una bacheca Facebook o un altro social integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, co. 3, c.p. in quanto si tratta di un’offesa arrecata “con un qualsiasi altro mezzo di pubblicità”, diverso dalla stampa, capace potenzialmente di raggiungere un numero indeterminato di persone.

Nel caso all’esame della Corte di Cassazione, il gestore di un blog era stato appunto condannato per il reato di diffamazione aggravata per aver pubblicato sul proprio blog una lettera aperta indirizzata al sindaco, agli assessori e ai consiglieri di un comune, accompagnandola con l’ammonimento “non offendere i porci” rivolta all’autore della lettera, e per non aver rimosso una serie di successivi commenti pesantemente offensivi provenienti da utenti anonimi.

La Corte ha, innanzitutto, escluso che –contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente- la disciplina degli internet service providers (ISP) sia automaticamente estensibile agli amministratori di un blog.

La sentenza ricorda, così, che la Direttiva europea sul commercio elettronico 2000/3/CE, attuata in Italia con il D.Lgs 70/2003, non impone un obbligo generale di sorveglianza ex ante agli ISP così detti passivi o neutri, vale a dire ai providers che svolgono servizi di c.d. mere conduit, caching e hosting, limitandosi a fornire l’accesso ad una rete di comunicazione su cui sono trasmesse o temporaneamente memorizzate le informazioni messe a disposizione da terzi, senza alcun controllo delle informazioni trasmesse (mere conduit) o memorizzate (caching e hosting).

La Direttiva, tuttavia, impone ai providers di informare prontamente le autorità competenti degli illeciti eventualmente rilevati nonché di condividere con esse ogni informazione che possa aiutare a identificare l’autore della violazione.

Nel caso in esame, ad esempio, la rimozione dei post offensivi era avvenuta solo in seguito a intimazione dell’autorità giudiziaria e proprio ad opera del provider Google, che aveva oscurato la pagina.

Ciò premesso, la Corte sottolinea la differenza intrinseca tra gli internet providers e gli amministratori di blog, che non forniscono un servizio in internet nel senso indicato dalla Direttiva ma “si limitano a mettere a disposizione degli utenti una piattaforma sulla quale poter interagire attraverso la pubblicazione di contenuti e commenti su temi nella maggior parte dei casi proposti dallo stesso blogger, in quanto caratterizzati dalla linea, che si potrebbe definire (anche se impropriamente) “editoriale”, impressa proprio dal gestore della suddetta piattaforma”. Il blog (termine che deriva dalla contrazione di web-log, ovvero “diario di rete”) è principalmente “un contenitore di testo (ovvero come diario o come organo di informazione indipendente), aggiornabile in tempo reale grazie ad apposito software”.

Forum, blog, pagine Facebook o di altri social network non possono essere assimilati nemmeno al concetto di “stampa” (che pur viene esteso oggi ai periodici telematici) e non possono quindi godere nemmeno delle relative garanzie costituzionali in tema di sequestro della stampa così che “l’autorità giudiziaria, ove ricorrano i presupposti del “fumus commissi delicti” e del “periculum in mora”, può disporre, nel rispetto del principio di proporzionalità, il sequestro preventivo di un intero sito web o di una singola pagina telematica, imponendo al fornitore dei servizi internet, anche in via d’urgenza, di oscurare una risorsa elettronica o di impedirne l’accesso agli utenti”.

Di conseguenza, come ribadito anche dalla Corte Europea dei Diritti Umani, il blogger non può essere ritenuto automaticamente responsabile per qualsiasi commento scritto sul proprio sito da altri utenti, perché ciò significherebbe ampliare a dismisura il suo dovere di sorveglianza: qualora il blog sia stato implementato di alcuni filtri nella pubblicazione dei contenuti, tuttavia, per evitare conseguenze penali il gestore è tenuto a vigilare ed approvare i commenti prima che questi siano pubblicati.

Va, dunque, esclusa la responsabilità penale del blogger che, una volta a conoscenza del contenuto diffamatorio del commento pubblicato, si sia immediatamente ed efficacemente adoperato per rimuoverlo. Viceversa, egli risponde dei contenuti denigratori pubblicati sul suo diario da terzi quando, presa cognizione della lesività di tali contenuti, li mantenga consapevolmente.

Non è configurabile una posizione di garanzia in capo all’amministratore del blog: la mancata tempestiva rimozione del commento diffamatorio, dunque, non equivale al mancato impedimento dell’evento diffamatorio (non essendo il blogger gravato da un obbligo giuridico di garanzia) ma equivale ad una consapevole condivisione del contenuto offensivo dell’altrui reputazione.

Ciò che è accaduto nel caso di specie, dove il Collegio ha ritenuto decisivo il fatto che il ricorrente, sino a quando non è intervenuto l’oscuramento intimato dall’autorità giudiziaria ed eseguito addirittura dal provider, aveva consapevolmente mantenuto sul blog le espressioni diffamatorie.