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Mar 2017

In una recente intervista all’agenzia di stampa AGI, la Vicepresidente dell’Autorità Garante della privacy, Augusta Iannini, ha sottolineato come sulla rete vi sia la diffusa percezione di avere la massima libertà senza alcuna responsabilità: “se noi vogliamo far passare il messaggio che sulla rete l’esercizio di un diritto non si accompagna alla responsabilità noi mandiamo un messaggio pessimo, terribile. Ci deve essere il concetto della responsabilità. Se scrivo un tweet o un messaggio su facebook, io devo sapere che posso risponderne”.

La Vicepresidente ha, inoltre, sottolineato come che “il nativo digitale non si rende conto che quello che scrive resta”  e, oltre a invitare genitori e famiglie a fare maggiore attenzione su come i loro figli utilizzano la rete, ha sottolineato la necessità di una maggiore responsabilizzazione dei propri figli. In effetti, proprio la facilità di comunicare con centinaia o migliaia di persone contemporaneamente, espone ogni utente del web (e, dunque, chiunque di noi) a rischi ma anche a responsabilità più o meno gravi.

Ricordiamo, innanzitutto, che l’utilizzo improprio di blog, chat, forum e social network, per esempio, può sfociare nel reato di diffamazione (che si configura quando una persona offende la dignità e la reputazione altrui in presenza di più persone): anzi, la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca facebook integra un’ipotesi di diffamazione addirittura aggravata ai sensi dell’art. 595, co.3, c.p. (aggravata, cioè, dall’uso di “qualsiasi altro mezzo di pubblicità”) proprio perché si utilizza un mezzo di comunicazione che ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone.

Ciò è stato ribadito anche in una recentissima sentenza della Cassazione Penale n. 8482 del 22.02.2017, che ha dichiarato inammissibile il ricorso di una studentessa universitaria già condannata dalla Corte d’Appello di Bologna per aver diffamato in rete la professoressa che l’aveva assistita nella preparazione della tesi, attribuendole la copiatura della sua tesi: la Suprema Corte ha ribadito che “l’uso dei social network, e quindi la diffusione di messaggi veicolata a mezzo internet, integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma 3, c.p., in quanto trattasi di condotta potenzialmente in grado di raggiungere un numero indeterminato di persone, qualunque sia a modalità informatica di condivisione e di trasmissione”.

Sempre di recente, la Suprema Corte ha confermato la condanna per diffamazione aggravata nei confronti di una donna che si era sfogata online nei confronti dell’ex marito, pubblicando su di un sito un messaggio (in cui indicava il proprio username, indirizzo e telefono), descrivendo le sue vicissitudini familiari e affermando che l’uomo, “musicista, docente di scuola media e maestro”, “insegna a dei bambini nonostante la perizia psichiatrica allarmante”. Il sito era accessibile a chiunque tanto che ne era venuta a conoscenza la nuova moglie dell’uomo, perfettamente identificabile in quanto unico ex marito dell’imputata, oltre che musicista e insegnante.

Nei mesi scorsi, una donna che ha reso pubblica la relazione con il proprio amato, attribuendosi su Facebook lo stato di “separata” quando ancora era sposata, e definendo “verme” il coniuge, è stata condannata a risarcire con 5.000 euro il marito (Tribunale di Torre Annunziata n. 2643 del 24 ottobre 2016). Nel caso di specie, la crisi tra i coniugi era sorta prima delle relazioni extraconiugali e i giudici hanno, perciò, escluso che la condotta della donna potesse giustificare anche l’addebito della separazione ma –ritenendo che l’ostentare un tradimento sui social network leda gravemente la dignità dell’altro coniuge- hanno comunque sanzionato la moglie.

Queste vicende ci insegnano, tra l’altro, come troppo spesso si sottovaluti il fatto che i social network possono rappresentare una fonte di informazioni, immagini, filmati che ci riguardano e che potrebbero essere utilizzati anche da terzi (un coniuge, un vicino, un concorrente, l’agenzia delle entrate, ecc.), in un eventuale contenzioso contro di noi.

Non dimentichiamo, del resto, che anche una semplice e-mail, quando abbia dei contenuti offensivi e venga indirizzata a più persone, può rappresentare una diffamazione; nel caso in cui l’e-mail “offensiva” venga inviata solo al diretto interessato, viceversa, sarebbe configurabile un’ingiuria, fattispecie che è stata oggi depenalizzata dal D.Lgs 7/2016.

In altre parole, pensiamo prima di scrivere qualsiasi cosa sul web.

In un prossimo articolo, vedremo i possibili profili di responsabilità dei gestori degli spazi sul web.