30

Nov 2017

Nell’era di internet, accade sempre più spesso che i nuovi media diventino degli strumenti di vendetta o di ritorsione anche nelle liti tra ex coniugi o ex conviventi.

Abbiamo visto, per esempio, come i social network vengano spesso utilizzati per dei pericolosi sfoghi virtuali che possono assumere anche rilevanza penale, quando hanno dei contenuti diffamatori nei confronti del proprio ex [https://www.lexit.it/falso-mito-dellirresponsabilita-quanto-si-scrive-sul-web/].

I social network, peraltro, sono spesso delle utili fonti di prova nei giudizio di separazione o divorzio: pensiamo per esempio, al soggetto che, attraverso i suoi post, dimostri un tenore di vita (foto di viaggi, abbigliamento, acquisto di preziosi o di regalie varie) ben diverso da quello dichiarato; pensiamo al caso di una nuova convivenza, resa nota attraverso dei post su facebook, e che potrebbe portare ad una revisione del provvedimento di assegnazione della casa familiare.

Proprio l’impulso della vendetta o la volontà di scoprire delle prove da usare contro il proprio ex, tuttavia, potrebbero indurci a commettere –più o meno consapevolmente- dei gravi reati.

Ricordiamo, innanzitutto, che la corrispondenza telematica è pienamente equiparata alla più tradizionale corrispondenza cartacea e che la corrispondenza altrui non può essere violata.

Di poche settimane fa, per esempio, è la notizia apparsa sulla stampa del rinvio a giudizio per violazione della corrispondenza di un uomo che, dopo essere entrato nella casella di posta elettronica aziendale della moglie (e sua dipendente), aveva letto e copiato una serie di messaggi che la  donna aveva scambiato con un altro uomo: l’imputato aveva poi consegnato copia di quelle e-mail al proprio legale perché le utilizzasse nel giudizio di separazione, per giustificare la richiesta d’addebito della separazione alla moglie.

Il caso presenta alcune similitudini con la fattispecie esaminata dalla Corte di Cassazione Penale con la sentenza n. 12603 del 15 marzo 2017: un uomo che, accedendo abusivamente alla casella di posta elettronica della propria convivente e dopo aver letto alcune e-mail che la donna aveva scambiato con un altro uomo, aveva poi inviato a più persone un’email (il cui mittente risultava l’altro uomo) lesive della reputazione della donna, allegando anche alcuni dei messaggi scambiati tra questa e il terzo uomo.

La sentenza offre un’interessante distinzione dell’ambito operativo di due norme all’apparenza anche sovrapponibili: l’art. 616 del codice penale (che punisce chiunque prenda cognizione del contenuto di una corrispondenza chiusa, a lui non diretta, ovvero sottrae o distrae, al fine di prenderne o di farne da altri prendere cognizione, una corrispondenza chiusa o aperta, a lui non diretta , ovvero, in tutto o in parte, la distrugge, sopprime o, senza giusta causa, ne rivela, in tutto o in parte, il contenuto) e l’art. 617 del codice penale (che punisce, oltre la cognizione, anche l’interruzione o l’impedimento illeciti di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche tra altre persone o comunque a lui non dirette).

La Suprema Corte ha chiarito che, concettualmente, la “corrispondenza” costituisce senz’altro una species del genus “comunicazione” ma è altrettanto pacifico che nell’ambito dell’art. 617 c.p. il termine “comunicazione” non identifica il genus nella sua astratta omnicomprensività, assumendo un significato più specifico, riferibile al profilo “dinamico” della comunicazione umana e cioè alla trasmissione in atto del pensiero (come suggeriscono anche il termine  “conversazione” e le condotte alternative a quella di cognizione fraudolenta, quali l’interruzione o l’impedimento della comunicazione); nell’art. 616 c.p., invece, il termine “corrispondenza” individua la comunicazione umana nel suo profilo “statico” e cioè il pensiero già comunicato o da comunicare fissato su supporto fisico o altrimenti rappresentato in forma materiale.

Per questa ragione, la Corte ha ritenuto che la condotta contestata all’imputato (l’aver preso cognizione del contenuto della corrispondenza telematica conservata nell’archivio di posta elettronica della convivente), proprio in ragione del suo oggetto materiale, andasse ricondotta all’alveo dell’art. 616 commi 1 e 4 c.p.

Nel caso in esame, peraltro, si contestava all’imputato anche il reato di accesso abusivo ad un sistema informatico ex art. 615 ter c.p.

Il nostro codice penale, infatti, vieta l’accesso ad un sistema informatico contro la volontà del titolare e ricordiamo che la conoscenza della password non basta ad escludere il carattere abusivo dell’accesso [https://www.lexit.it/il-movente-nei-reati-informatici/].

La Corte di Cassazione lo ha ribadito anche con la sentenza n.52572 del 06.06.2017: un’ex moglie, conoscendone la password, era entrata nella casella di posta elettronica dell’ex marito per leggerne le e-mail e che poi –per vendicarsi- aveva modificato la password dell’uomo con una frase ingiuriosa nei confronti dello stesso.

In questo caso come nel precedente (dove l’uomo diceva di aver ricevuto dalla convivente le credenziali di accesso al suo account di posta), la donna si era difesa affermando che il reato di accesso abusivo al sistema informatico richiederebbe che chi agisce sia consapevole di aggirare le misure di sicurezza atte a proteggere il sistema informatico, mentre, nel caso di specie ,  le password le erano state fornite dal marito: in altre parole, non c’era  stato alcun espediente atto ad aggirare la protezione del sistema.

La Suprema Corte ha parzialmente accolto il ricorso della donna, dando atto dell’intervenuta depenalizzazione del reato di ingiuria e dell’intervenuta prescrizione del reato di accesso abusivo. Nel confermare, tuttavia, le statuizioni civili relative al reato di cui all’art. 615 ter p.p., il Collegio ha ribadito che la conoscenza della password di accesso all’account di posta non esclude affatto la sussistenza del reato: la casella di posta elettronica, precisa la Cassazione, rappresenta “uno spazio di memoria, protetto da una password personalizzata, di un sistema informatico destinato alla memorizzazione di messaggi, o di informazioni di altra natura, nell’esclusiva disponibilità del suo titolare, identificato da un account registrato presso il provider del servizio”.

Nel caso in esame, la modifica della password e l’impostazione di una nuova domanda di recupero con l’inserimento di una frase ingiuriosa dimostravano ulteriormente l’abusività dell’accesso, avvenuto chiaramente conto la volontà del titolare della casella elettronica.

L’accesso abusivo a un sistema informatico e telematico protetto (art. 615-ter c.p.) si configura in caso di accesso o di mantenimento nel sistema posti in essere da soggetto che, pure essendo abilitato, violi le condizioni e di limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso.

Certo, non può ritenersi conforme alle regole dettate dal titolare per l’accesso alla sua casella di posta elettronica  la condotta di chi utilizza la password, anche se ottenuta con il consenso del titolare, per modificarla indebitamente impedendo a quest’ultimo di accedervi.

Non dimentichiamo, infine, che la Cassazione ha ritenuto che le abusive intrusioni nell’account e-mail e nel profilo facebook altrui possano integrare anche una condotta persecutoria, qualora provochino nella vittima uno stato d’ansia o la costringano a cambiare le proprie abitudini di vita e il proprio indirizzo, configurando una forma di stalking ai sensi dell’art. 612 bis c.p.