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Ago 2023

Auto rubata nel parcheggio P2 dell’aeroporto di Milano Malpensa (area recintata, sbarra di accesso, biglietto, videocamere).

Precedenti uniformi di Cassazione, secondo cui -in casi analoghi- “deve ritenersi che nell’oggetto del contratto di parcheggio sia ricompresa l’obbligazione di custodia del mezzo”.

Logico, facile; anzi no.

Fatto accaduto nel 2015,

  • sentenza del Tribunale del 2017 che rigetta la richiesta risarcitoria del proprietario dell’auto,
    • sentenza della Corte d’Appello del 2020 che conferma la sentenza di primo grado,
      • sentenza della Corte di Cassazione del 2023 che cassa il tutto, richiamando la propria consolidata giurisprudenza, rinviando alla Corte d‘Appello in diversa composizione,
        • Corte d’Appello che deciderà non si sa quando e come.

Delle numerose riflessioni che il caso stimolerebbe (sui tempi dei processi, sul ruolo nomofilattico della Corte di Cassazione, sulle sottili disquisizioni in ordine all’affidamento ingenerato negli utenti circa l’inclusione della custodia nel servizio di parcheggio), una le sovrasta tutte: chi si può permettere tutto ciò?

A livello individuale, un processo del genere se lo può permettere solo una persona ricca o, come si può dedurre dal fatto che le parti sono entrambe società per azioni, un soggetto istituzionale (una società di leasing, una compagnia assicurativa e simili). I conti sono presto fatti: supponendo che l’auto valesse tra i 26 e i 52 mila euro, il giudizio di primo grado sarebbe costato al soccombente 9 mila euro x 2 di sole competenze legali imponibili, quindi 18 mila euro. Il giudizio d’appello altri 8 mila euro x 2, quindi 16 mila euro, portando il complessivo esborso ad almeno 35 mila euro, includendovi contributo unificato, marche da bollo, imposta di registro: a quel punto, affrontare o no un giudizio di cassazione contro una c.d. doppia conforme, col rischio di sborsare altri 7/8 mila euro x 2, portando così il totale, in caso di soccombenza, a 50 mila euro?

Dal 2015 al 2023, inoltre, il derubato avrà dovuto sostenere verosimilmente anche lo sforzo finanziario dell’acquisto di un’altra auto, per non parlare del malessere psicologico che un simile contenzioso gli avrà procurato.

A livello collettivo, il discorso non cambia.

Quanto sta costando alla collettività questo processo, in termini di risorse economiche spese e da spendere (legge Pinto), ritardi provocati ad altri processi, immagine, etc. ?

Possiamo ancora permetterci, come collettività, un lusso simile? Se fosse veramente un lusso, cioè vi fossero prestazioni d’eccellenza a carissimo prezzo, potremmo anche discuterne. Ma si tratta in realtà di un puro spreco, visto l’impiego di risorse ingenti per risultati scadenti. Come tale non ce lo possiamo permettere, né economicamente né eticamente.

Al di là delle buone intenzioni, i risultati dicono che le riforme processuali civili degli ultimi trent’anni non sono riuscite nel loro intento: nei rari casi in cui vi è stata un’abbreviazione dei tempi, si è pagato un caro prezzo in termini di costi  dei processi e di qualità delle decisioni.

Forse ciò significa che il problema non è dove lo si sta da anni inutilmente cercando.

Forse ciò significa che il problema sta nelle dimensioni della struttura che si vuol continuare a mantenere.

Forse ciò significa che il problema sta nell’incaponirsi a voler continuare a garantire due gradi di merito.

Nel civile, se si creasse un unico giudice di merito, dotato delle infrastrutture personali e materiali degli attuali tribunali e corti d’appello, vi sarebbero degli indubbi vantaggi in termini di durata e di costi dei processi. Ma sarebbe lecito aspettarsi anche un netto miglioramento della qualità delle decisioni, che è quel che alla fin fine deve interessare di più: se il giudice del merito è messo in grado di gestire il fascicolo direttamente (senza l’aberrazione della delega dello svolgimento dell’istruttoria ad un giudice onorario) e dall’inizio alla fine (è noi capitato di fascicoli passati per cinque magistrati diversi), di dedicare al suo studio ed alla stesura dei provvedimenti il tempo necessario, di fare il tutto in un arco temporale ragionevole, senza rinvii di mesi o addirittura di anni tra un incombente e l’altro (cosa che provoca sia la perdita di memoria di quanto accaduto sino alla volta precedente, costringendo giudice ed avvocati a ristudiare ogni volta il fascicolo da zero, sia la dispersione e l’annacquamento delle fonti di prova), un miglioramento della qualità sarebbe certo.

Ne scaturirebbe una sentenza migliore, un processo più rapido, un costo più ragionevole, con un effetto domino sull’intero sistema.

Se a questo si affiancasse un giudizio di cassazione un po’ più accessibile, il gioco sarebbe fatto.

A fronte di tutto ciò, a cosa avremmo rinunziato?

Se la questione controversa è di stretto diritto, a nulla, c’è la Cassazione.

Negli altri casi, quante sono le sentenze che vengono impugnate sul puro fatto? Solo quelle frutto di un’istruttoria frettolosa, perché non si è voluto ascoltare un teste in più, non si è voluto ammettere un capitolo di prova in più, non si è voluto chiamare a chiarimenti il CTU, etc.. Ma se si esaudiscono in maniera estesa le richieste istruttorie delle parti e si dà al giudice il tempo di ragionare con calma sui relativi esiti, difficilmente resta spazio per censure sul puro fatto; e quando questo spazio sembra vi sia, non vi è alcuna garanzia che la decisione venga riformata in appello, come dimostra proprio il caso da cui siamo partiti (e che, alla fine, ha rilevato sottendere una questione di diritto).

E’ chiaro che più che di una riforma si tratterebbe di una rivoluzione, anche se i problemi applicativi sarebbero legati più agli aspetti burocratici (carriere dei giudici e del personale) e logistici (sedi degli uffici) che a questioni strettamente giuridiche (il processo civile non ha la valenza politica di quello penale e non servirebbe introdurre alcun nuovo rito): bisognerebbe solo decidere cosa fare della collegialità, che i più giovani non sanno nemmeno fosse un tempo la regola per tutti i processi in tribunale e della cui effettività in appello i più anziani si sono fatti certe loro idee.

Un alto numero di gradi di giudizio non fa un alto livello di civiltà giuridica e, del resto, già in qualche ambito non c’è appello (ad esempio, nelle controversie in materia di protezione dei dati personali).

Bisogna, come nella ricerca scientifica, sforzarsi di mettere in discussione lo status quo e cambiare prospettiva: altrimenti, continueremo a pensare che sia il sole a girare intorno alla terra, ferma immobile al centro del nostro piccolo universo.